Il mese di ottobre declina fra le brume autunnali in una notte che per gli antichi popoli del nostro continente era densa di significato e ricca di magia. Una notte tuttavia che, data la particolare importanza che ha poi assunto negli Stati Uniti, ci viene “rivenduta” come importata da questo Paese.
Cerchiamo allora di riappropriarcene, riconducendola all’interno delle nostre tradizioni più radicate e liberandola dalle sovrastrutture imposte dallo sfruttamento a scopi commerciali che l’ha in parte snaturata.
In realtà, il Nuovo Mondo ha reintrodotto nella vecchia Europa, volgarizzandola, una festa che ha visto fronteggiarsi, quanto alle sue origini, due teorie. La prima la lega alle festa romane come quella dedicata a Pomona, che variava a seconda della germogliazione dei semi e all’apparire dei frutti; oppure ai Parentalia, i riti privati con cui le famiglie celebravano dal 13 al 21 febbraio i loro defunti e che culminavano nelle offerte lasciate sulle tombe nell’ultimo giorno, quello dei Feralia, la vera e propria festa dei morti; o, ancora, con i Lemuria o Lemuralia le feste celebrate il 9, l’11 e il 13 maggio, per esorcizzare gli spiriti dei defunti, i lemuri appunto durante le quali il pater familias si gettava per nove volte alle spalle alcune fave nere recitando formule propiziatorie.
La seconda, invece, la fa risalire ai riti agrari di Samhain (Samuin in Irlanda), termine chei può tradurre con “fine dell’estate”, celebrati la notte fra il 31 ottobre e il 1° novembre quando, ultimati i raccolti, la terra veniva preparata per l’inverno in attesa di Beltane, la notte fra il 30 aprile e il 1° maggio, che segnava il ritorno dell’estate.
Samhain, posta all’inizio del calendario celtico, è conosciuta ancor oggi in Scozia come la notte delle Calende d’inverno, quando i campi sembrano morti, mentre in realtà la vita va rinnovandosi sottoterra, dove tradizionalmente si trova il regno dei morti. Notte in cui si assottigliava il velo tra i due mondi rendendo possibile il passaggio dall’uno all’altro. Notte di festa per i Celti, così come lo erano a Roma le feste solstiziali che segnavano l’inizio dell’anno nuovo.
Per cristianizzarla, l’episcopato Franco istituì la celebrazione di Tutti i Santi, ampiamente diffusa da Alcuino, consigliere di Carlo Magno, poi estesa all’intero regno franco da Ludovico il Pio per volere di Gregorio IV, e infine resa obbligatoria per tutta la Chiesa occidentale da Sisto IV nel 1475. Dopo la scissione delle Chiese protestanti, la festa proseguì in versione laica nelle aree anglosassoni, diffondendosi poi negli Stati Uniti a metà Ottocento ad opera degli immigrati irlandesi.
Più tarda la commemorazione dei morti, istituita nell’XI secolo da Oddone di Cluny con Ufficio dei defunti, annunciato dai tradizionali rintocchi funebri delle campane dopo i vespri solenni del 1° novembre. Probabilmente il santo abate si ispirava ai riti in onore dei morti da tempo celebrati a cavallo tra gennaio e febbraio, ma sicuramente vi era stato indotto dall’urgenza di cristianizzare le cerimonie celtiche che ancora sopravvivevano in zone non del tutto evangelizzate.
Impossibile, tuttavia, non notare l’enorme differenza tra lo spirito che animava le antiche cerimonie pagane e quella cristiana. Miriadi di lumini accesi e profusione di fiori nei cimiteri celti, dove si trascorreva la notte bevendo, suonando e cantando in compagnia dei trapassati; allo steso modo, i nostri antenati etruschi erano usi a consumare il pasto funebre seduti sul bordo dei sepolcri accanto ai loro morti. Anche Oltreoceano, per la festa di Todos los Santos, i cimiteri messicani si trasformano in prati fioriti che riflettono le tradizioni atzeche, e si confezionano dolci di pane a forma di teschi e scheletri perché − si pensa − come dai semi nasce il frumento è dai morti che nasce la vita.
Ma ritorniamo alla “Notte di tutti i Santi”, cioè ad Halloween, termine che è una variante di All Hallows’ Eve, forse legata alla leggenda di Jack-o’-lantern, condannato a vagare per il mondo alla luce di una candela. In Scozia e in Irlanda la si inseriva in una grossa rapa, ma quando l’uso attecchì nel Nordamerica, si preferì sostituirla con le zucche locali, più facili da reperire e più comode da scavare.
Tuttavia, neppure le antiche notti celtiche e la leggenda del demoniaco patto di Jack- o’-lantern bastano a spiegare le maschere di Halloween, ispirate alla morte, al male, al mostruoso, all’occulto. E qui il discorso si complica.
Vero è che in età medievale i poveri − tradizione diffusa soprattutto in Irlanda e Gran Bretagna ma anche nell’Italia meridionale − andavano di porta in porta il 1° novembre elemosinando del cibo che avrebbero ripagato il giorno successivo pregando per i defunti. Tuttavia, dietro i travestimenti usati per formulare l’apparentemente innocuo trick-or-treat (dolcetto o scherzetto), si cela un qualcosa di più antico e inquietante. Per indagarlo dobbiamo ritornare alla notte di Samhain, il tempo della grande “festa dei morti”.
Secondo la mitologia irlandese, la leggendaria guerriera Scáthach, avrebbe abbassato in quella notte il suo scudo che chiudeva il passaggio fra i due mondi così che i morti potessero tornare nei luoghi in cui erano vissuti ed era in loro onore che si tenevano le celebrazioni gioiose. Tuttavia il mondo dei vivi era comunque stato invaso dalle forze del caos così che era necessario che tutti i partecipanti alla festa, una volta tornati nei loro villaggi, indossassero le pelli degli animali sacrificati per spaventare gli spiriti e farli tornare nel loro regno.
Ma c’è dell’altro, ed è legato a Hellequin, una divinità ctonia, antica, il cui ricordo traspare non solo nel nomi del dantesco Alichino del manipolo dei Malebranche, la in quello di un popolarissimo personaggio: Arlecchino. Avete notato la sua maschera nera con un accenno di corno sulla fronte? Del resto il vocabolo latino usato per indicare la maschera teatrale era persona, mentre masca indicava la strega, come testimonia fra l’altro l’Editto di Rotari in cui si legge “strigam, quod est masca” e che con questo significato ritroviamo in molte voci dialettali).
Una divinità il cui nome ha una radice germanica, Hölle König, re degli inferi, poi traslato in Helleking e infine in Harlequin. Un’interpretazione “infernale” di chiara matrice cristiana, conforme alla pratica di trasformare in demoni gli dei pagani e che appare in tutta la sua evidenza in molti passi dell’Inferno di Dante (valga per tutti il “Caron dimonio, con occhi di bragia”).
Già ai primi del XII secolo, il monaco inglese Orderico Vitale narrava della spaventosa apparizione di una familia Herlechini, un corteo di anime dannate torturate da demoni neri guidati da un gigante: visione che rinviava della credenza, viva nel centro e nel nord dell’Europa, che nel periodo più buio dell’anno, quello invernale, il cielo e la terra fossero percorsi dalla “caccia selvaggia”, uno stuolo di spiriti inquieti al seguito di un’oscura divinità.
Demoni, maschere, dannati e cavalcate selvagge che hanno probabilmente ispirato a Georges Martin l’esercito di non-morti del Re della Notte.
Ma veniamo a un tema più piacevole e rassicurante: il cibo della festa. Le società tradizionali, infatti, scandite dal “quotidiano” e dal “festivo”, erano contraddistinte dal rispetto formale di tutta una serie di pratiche che riguardavano, fra l’altro, anche il cibo. A determinarne la sacralità e a giustificare lo speciale rapporto esistente tra la festa e il cibo rituale, oltre alla sua intrinseca preziosità, erano anche la fatica con cui la materia prima veniva reperita e preparata.
Scegliendo fra gli infiniti esempi a disposizione quelli più diffusi nella nostra cultura, ecco dunque le fave, già condannate dalla dottrina pitagorica per le loro valenze iniziatiche, magro e funereo legume un tempo distribuito ai poveri e ai carcerati a scopi propiziatori. Ma è nella Naturalis Historia che Plinio ne attribuisce l’impiego nei sacrifici in onore dei defunti al fatto che “in esso si trovano le anime dei morti”. Primo dono proveniente dal mondo sotterraneo, la fava apparteneva alla sfera dei tesori nascosti, come del resto la castagna, alla quale era attribuita la funzione di facilitare i rapporti con l’aldilà. Con entrambe si facevano minestre dai colori bruni e verdastri dell’autunno, mentre chi poteva sacrificava l’oca.
E chi non conosce almeno di nome il senese “pane dei Santi” o il campano “torrone dei morti”?
Sempre il 2 novembre, in area eporediese, si imbandiva della polenta e con una lamentatio si invitava il defunto a cibarsene. Tempus terribile, il 2 novembre, quando i defunti varcavano le porte dell’oltretomba. Ma in Sicilia erano loro e non Babbo Natale a portare ai bambini piccoli doni, dolcetti, o semplicemente un’arancia o un pugno di frutta secca da cercare in una sorta di caccia al tesoro. I più fortunati trovavano gli “ossi di morto” (tibie e teschi di candida pasta al garofano su una base scura di zucchero cotto), la frutta di Martorana, i “pupi di zuccaro” o la conserva di mandorle.
In Romagna, invece, si facevano gli spumini a forma di tibie e la “piada dei morti”; nel Milanese il “pan dei morti”; in buona parte d’Italia, dalla Lombardia al Lazio, da Trieste alla Toscana le “fave dei morti”, e via di questo passo. Perché un tempo la morte era parte integrante della vita ed era solo riconoscendola in quanto tale che la si poteva esorcizzare.