Forse sarebbe bene smetterla di diffondere notizie false e storicamente inaccettabili sull’origine e la diffusione di alcuni dei nostri gioielli gastronomici.
Si continua infatti a scrivere che certi piatti della cucina francese vi sarebbero stati introdotti da Caterina dei Medici; che la bistecca alla fiorentina altro non è che la carbonata dei ricettari medievali (è cotta, no?, sui carboni?) alla quale fu mutato il nome dopo che degli inglesi di passaggio esclamarono ammirati “Oh, beef steak!” davanti a un vitello allo spiedo con il quale un intero quartiere celebrava la vittoria riportata al gioco del calcio (quello che oggi diciamo “in costume”); che ai banchetti del Medioevo e del Rinascimento ci si ingozzava senza ritegno di cibo; che le spezie servivano a coprire l’odore e il gusto di putrefazione dei cibi, e altre piacevolezze del genere.
Qualche rara voce si prova a dissentire, ma non è ascoltata, tanto è il potere di certi guru della cosiddetta cultura gastronomica. Si sa, uno scrive un qualcosa che appare subito come originale e innovativo, e gli scribacchini lo copiano e lo diffondono trasformandolo di una sorta di dogma. Il dogma della disinformazione, appunto. Un lungo elenco di stupidaggini che andrebbe interamente resettato.
In realtà, basterebbe consultare con un briciolo di attenzione e di apertura mentale gli antichi ricettari, i prodotti reperibili sui mercati, le vie del commercio vicino e lontano, gli usi alimentari e i comportamenti a tavola per avvicinarsi a una realtà che, per quanto lontana, è pur sempre leggibile senza sforzi interpretativi che la distorcono irrimediabilmente.
E cominciamo col rivedere la storia di piatti come l’omelette, che qualcuno collega al fiorentino “pesce d’uovo” importato Oltralpe dalla golosa Caterina, che l’avrebbe più volte preparato nella cucina dei conventi femminili di Santa Lucia, Santa Caterina e delle Murate di cui fu ospite bambina negli anni dell’assedio posto da Carlo V alla città. Peccato che uova, pangrattato, pecorino, aglio, prezzemolo e pepe siano gli ingredienti di un piatto poverissimo della tradizione siciliana: il pisci r’ovu, una frittatina di forma allungata che nella forma e un po’ nel sapore ricordava alla lontana un ingrediente costoso e dunque non alla portata di tutti. E allora?
Il fatto è che, lungi dallo stare rinchiusi nelle loro cucine fumose e affollatissime di garzoni indaffarati, gli chef di un tempo giravano, portando all’estero le loro ricette e imparandone di nuove che poi riproponevano in patria. Come spiegare altrimenti i legami del Forme of Cury, probabilmente dell’ultimo quarto del XIV secolo e attribuito ai “maestri cuochi di re Riccardo II” d’Inghilterra con i coevi ricettari italiani? O sugli importanti apporti arabi, spesso mutuati dalla tradizione persiana?
Dunque la domanda “la cucina francese ha origini toscane?” pone un falso problema con l’inevitabile strascico di rivendicazioni campanilistiche. Come se un buon piatto dovesse necessariamente essere etichettato. Come se il gusto fosse privilegio di un popolo piuttosto che di un altro.
Le prossime volte proveremo a distruggere altri castelli di false informazioni. La cucina è cultura e anche come tale va rispettata.