È incredibile la confusione che si continua a fare tra “alimentazione” e “gastronomia”. Se la prima, infatti, riguarda la scelta delle materie prime con cui nutrirsi e il tipo di cottura a cui eventualmente sottoporle per poterle consumare, la seconda riguarda le regole e gli usi relativi all’arte culinaria, e dunque non solo le esigenze nutrizionali ma tutto quanto ruota intorno alla preparazione dei cibi, la loro successione e il loro accostamento durante il pranzo o la cena, la scelta delle bevande. Oltre, naturalmente, al rituale del servizio e della distribuzione del cibo ai commensali, alle differenze tra i vari pasti della giornata, della settimana e del calendario annuale, e a quelle tra la tavola quotidiana e i banchetti.
Mi riferisco in particolare alla cosiddetta “cucina etrusca”, espressione del tutto impropria, per quanto con questo titolo siano stati pubblicati articoli e, ahimè, qualche libro. Senza tuttavia, accennare al fatto che gli scarsissimi testi in lingua etrusca giunti fino a noi non contengono ricette di nessun tipo, mentre proprio le ricette sono indispensabili alla corretta ricostruzione di un pasto, ricco o modesto che sia.
Le uniche notizie sull’argomento possono essere desunte dagli affreschi di alcune tombe – materie prime, cuochi all’opera, scene di banchetti, utensili di vario tipo − o dagli stucchi della Tomba dei Rilievi di Cerveteri che, uniti ai corredi dei defunti, consentono la ricostruzione di una cucina ben attrezzata; oppure ci sono state tramandate da autori greci e latini che riprovavano vari aspetti della vita sociale di questo popolo, portando fra l’altro all’eccesso il luogo comune dell’etrusco molle, raffinato e sovralimentato.
Nelle sue Storie, ad esempio, Posidonio di Apamea (135-50 a.C.) narra che, oltre a far sfoggio di coppe d’argento, tappeti ricamati e “una folla di begli schiavi adorni di vesti sontuose”, gli Etruschi “apparecchiavano le loro tavole due volte al giorno”. Schiavi dl ventre, (gastriduloi) dunque, questi biasimevoli individui, che facevano due pasti sostanziosi nell’arco della giornata, mentre la frugalità romana del buon tempo antico voleva che ci sedesse a tavola solo alla sera, sfamandosi rapidamente in piedi al mattino e all’ora di pranzo.
Una definizione in linea con più antiche note di riprovazione, fondate sulla diversità fra i costumi di Greci ed Etruschi specie per quel che riguardava la partecipazione delle donne ai banchetti. Di qui, forse, anche gli stereotipi del pinguis Tyrrenus di Virgilio e dall’Etruscus obesus di Catullo, più motivi letterari che realtà di fatto, corroborati dalle numerose raffigurazioni dei notabili etruschi, che sui loro sarcofagi apparivano, oltre che ornati da gioielli, in evidente sovrappeso. Un modo di ritrarli, tuttavia, che forse mirava a sottolineare il loro rango: nella cultura antica i “grassi” designavano infatti il gruppo degli oligarchici (i pacheis del mondo greco, il “popolo grasso” del nostro Medioevo), e dunque il ventre prominente poteva essere simbolo di una condizione sociale legata alla ricchezza ed al potere.
Quanto al cibo imbandito, in assenza non solo di un Apicio ma di un Plinio il Vecchio o di un Columella etruschi, ci possiamo affidare, oltre che all’iconografia, a un passo di Tito Livio che contiene la lista dei prodotti alimentari (soprattutto cereali di buona qualità) forniti nel 204 a.C. dalle città etrusche a Scipione per la spedizione in Africa, e soprattutto ai dati archeologici.
Se il ritrovamento dei vasi che li contenevano ha confermato il consumo di olio e vino e dunque la coltivazione dell’olivo e della vite, l’archeobotanica e l’archeozoologia, cioè lo studio dei resti vegetali e animali provenienti dai siti scavati hanno consentito di tracciare un quadro piuttosto ricco dei principali alimenti di questo popolo per molti versi ancora misterioso, che include una serie sorprendentemente ampia di cereali, legumi, bacche, frutti coltivati e selvatici, oltre a suini, pecore e capre, pollame, a cui talvolta si aggiungono animali cacciati come il cervo il capriolo e la lepre, oppure − in vicinanza del mare, dei fiumi, dei laghi – dai prodotti della pesca.
Con buona pace degli estensori dei manuali di cucina etrusca, questo è tutto ciò di cui possiamo aver certezza, oltre al fatto che è a questo popolo che si deve la precoce diffusione della viticultura nell’Italia centrale, la coltivazione dei primi olivi, le tecniche di irrigazione e coltivazione dei campi e quelle, poi insegnate ai Romani, utili a produrre l’olio e il vino.
Quanto al resto, in mancanza di ricette, possiamo solo ipotizzare che, come quelli alimentari, anche i modelli gastronomici dei Romani fossero improntati a quelli etruschi. E dunque, puls, cioè polentine di farro, zuppe e minestre a base di cereali e legumi interi o macinati spesso mischiati insieme, numerose erbe selvatiche e domestiche semplicemente bollite, latte, formaggi, poca carne. Alcune semplici ricette potrebbero essere desunte dalla Storia naturale di Plinio il Vecchio o dai trattati di agricoltura di Catone, Varrone e Columella, che includono svariate notizie sull’uso gastronomico dei prodotti. Come quella sul modo di consumare l’insalata, che Catone si vanta di condire, secondo l’uso dei suoi padri, solo con l’aceto. Anche dopo la sua tardiva comparsa sulle tavole, infatti, l’olio restò un prodotto di lusso, non accessibile ai contadini e alla plebe, che continueranno a utilizzare lardo e strutto anche nei dolci.