Tre sono i codici che contengono, insieme agli Inventari relativi all’ “ariento, stagno, ottone, coltella, tovaglie e altri arnesi” conservati nella “Camera dell’arme del palagio del popolo di Firenze”, i registri delle enormi spese sostenute per la Signoria e gli addetti al suo servizio nell’arco di tempo che va dalla metà del 1344 ai primi del 1477.
Il corredo è quello di una tavola molto ricca, con tovaglie, tovaglioli e guardanappe, bacini e piedistalli, acquamanili e fiaschi di vetro o di stagno, posate con l’impugnatura d’osso nero o d’avorio e forchettoni, piattelli e scodelle d’acero, saliere, salsiere e confettiere, taglieri “bianchi di fagio” e candelieri. A cui si aggiungevano turaccioli e colatoi, piccoli stacci e orcioli; e ancora teglie e tegliette, padelle e caldai, paioli e schidioni, ramaioli e grattugie.
Di bicchieri, stranamente, non si fa menzione. E si narra di come “…data l’acqua alle mani tutti andarono a sedere. Le vivande delicatamente fatte vennero, e finissimi vini furon presti”.
Ogni giorno si acquistavano, soldo a soldo, frutta, legumi e ortaggi da consumare freschi o bolliti, erbe e radici, uova e latte, cacio fresco e “passo”, secco e grasso, pane, pasta, orzo e farro, rara farina.
Nei giorni “di grasso” si comprava anche la carne: difficilmente di bue, più spesso di vitella o capretto, quasi sempre (anche d’estate) di maiale, fresca secca o salata. E poi castrone, selvaggina (porco selvatico, lepre e capriolo), volatili domestici e non. I pesci venuti da Pisa si aggiungevano ai pescetti d’Arno, ai lucci dell’Ombrone, alle anguille del Trasimeno.
Si cucinava nei camini e nei forni, con olio, lardo, strutto o addirittura “sugnaccio” (il grasso di maiale della regione renale), insaporendo i piatti con il sale e la “salina” (sale grosso non raffinato).
La cucina, probabilmente, era quella dei ricettari trecenteschi a noi pervenuti mutili: una cucina carica di aromi e di spezie (zenzero e noce moscata, chiodi di garofano e cannella, anice e zafferano, cardamomo e pepe), i cui piatti, conditi con mostarde e “savori”, vino e aceto, sapa (mosto cotto) e agresto (succo d’uva acerba), erano avvolti dal profumo di acqua nanfa (di fiori d’arancio) o di rose, di viole, di gigli, diluiti nella dolcezza dello zucchero bianco o rosato, arricchiti da mandorle e pinoli.
Si beveva vino bianco e vermiglio, vin greco e malvasia, vernaccia e vernacciuola, trebbiano e verdea, vin cotto e vin di more, vin di maggio e ippocrasso.
E, se il denaro veniva elargito con parsimonia, quotidiane elemosine di pane e dolci, cacio, pesce e uova venivano inviate ai monasteri perché le distribuissero ai poveri e ai carcerati, trattenendo per sé candele, olio per le lampade, incenso e altro ancora.
Usavano le forchette i Priori? Il nostro inventario ne contiene quarantatré, cioè quasi quanti sono i cucchiai e le scodelle ma più numerose dei trentuno coltelli. Oltre ai forchettoni con cui si attingeva ai vassoi o ai grandi taglieri di servizio. “Forchette d’ariento” compaiono anche negli Statuti dell’Arte della Seta, negli inventari dell’argenteria della Repubblica di Siena a partire dal 1360 e in quelli dei beni della moglie di Francesco Datini, mercante di Prato.
Una querelle ancora aperta, dunque, dal momento che i pareri degli studiosi sono discordi, contraddittorie le informazioni contenute nella letteratura del tempo dal Boccaccio al Sacchetti, continui gli accenni al rito dell’abluzione delle mani, necessario a chi se ne serviva per portare il cibo alla bocca, e alle beffe di cui erano invece oggetto quanti ardivano far uso del pratico strumento.