L’anno, come dice Dante, è “giovinetto” sotto il segno dell’Acquario, per poi assumere le sembianze di un vecchio canuto e barbuto. Una vita condensata nei dodici mesi che scandiscono il calendario solare, su cui si impianta quello liturgico, integrando le antiche feste agrarie e quelle cristiane, incardinate sulle due principali: quella fissa, solstiziale, del Natale e quella equinoziale ma mobile della Pasqua.
Il periodo che va da Natale all’Epifania, comunque, era considerato come un’unica grande festa del solstizio d’inverno, che si protraeva per dodici magici giorni dalla sera del 24 dicembre all’alba del 6 gennaio.
Al Natale si collega la tradizione dei doni (forse un’eredità delle strenne distribuite a Roma durante i Saturnalia come buon augurio per il nuovo anno) portati ai bambini dal Bambin Gesù prima, da Babbo Natale poi: incarico precedentemente assolto, nel nostro Meridione, dagli antenati nella notte fra l’1 e il 2 novembre, e in alcune zone dell’Italia settentrionale (e del Nord Europa) da Santa Lucia in quella fra il 12 e il 13 dicembre.
A distribuire doni, tuttavia, era anche la Befana: un po’ di dolcezza che la terribile vecchia dispensava mentre “portava via” le feste che avevano concluso l’anno vecchio. Doni ambivalenti, i suoi: di augurio ma anche di ricompensa che, se non era del tutto meritata, faceva materializzare nella calza, in tutto simile alla cornucopia, un pezzetto di carbone in segno di punizione e ammonimento.
Uno dei simboli del Natale è l’albero che, come quello dell’Eden, è fonte di doni inesauribili di sapienza (le luci), ricchezza (gli addobbi) e dolcezza (i dolciumi). Ma, anzitutto, è potere generativo, fonte di fecondità e di vita. È per questo che molti luoghi il vero e proprio albero di Natale non era l’abete carico di ornamenti e di luci, ma il “ceppo” che si bruciava nel camino e che, come i fuochi d’ artificio e le fiaccolate sui monti innevati la notte del 31 dicembre, oltre ad avere un valore magico, celebrava l’avvento del nuovo anno, ovvero del nuovo Sole.
Un tempo era il capofamiglia ad accenderlo solennemente dopo che era stata recitata l’Ave Maria. Serviva a scaldare il Bambin Gesù, si diceva, e doveva bruciare fino all’alba, ma non consumarsi del tutto perché il fuoco andava riattizzato ogni notte fino all’Epifania. Un rito fortemente propiziatorio: come il sole compie in dodici mesi il suo giro apparente intorno alla terra donando agli uomini luce e calore, il grosso, stagionato ceppo che si consumava nelle dodici notti che concludevano l’anno vecchio avrebbe riscaldato e nutrito l’umanità durante quello nuovo.
Detentrici di arcane virtù erano anche le sue ceneri, sparse per rendere fertili i campi e gli animali, e scongiurare pericolosi fenomeni naturali. Non meraviglia, dunque, se nella Valdichiana di fine Ottocento i bambini cantavano una filastrocca detta l’Ave Maria del ceppo mentre lo percuotevano, bendati, con le molle per farne piovere strenne e dolciumi; e se un po’ in tutta Toscana il capofamiglia, nel dargli fuoco, pronunciava un’invocazione che suonava più o meno così: “si rallegri il ceppo, domani è il giorno del pane, ogni grazia di Dio entri in questa casa”.
Il Natale, infatti, era definito “il giorno del pane”, che è simbolo della vita eterna, della misericordia di Dio, della fertilità della terra. Simbolo del Cristo che aveva detto “Io sono il pane della vita: chi viene da me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete”. E il Salvatore era nato a Betlemme, in ebraico Bet Lehem, che voleva dire “casa del pane”.