Leggere il documento dell’ISTAT “le previsioni per l’economia italiana nel 2021-2022”, uscito il 4 giugno scorso, colpisce. Ci si rende conto molto bene di come il mondo, è proprio il caso di dire così, abbia imboccato la strada della ripresa, grazie alle vaccinazioni che stanno gradualmente mettendo sotto controllo la pandemia. Più in certe parti o settori, meno in altri. Già in accelerazione qui, ancora quasi ferma là. Usa e Cina già più avanti, Europa più indietro.
Anche in Italia: la produzione manifatturiera è in netta ripresa, faticano ancora moltissimo servizi e turismo. Alla fine però il Prodotto Interno Lordo (PIL) dovrebbe crescere nel 2021 del 4,7% e del 4,4% nel 2022, in rialzo rispetto alle previsioni fatte ancora nei primissimi mesi dell’anno. E così pure l’occupazione.
Leggendo l’ISTAT colpisce un’altra cosa. Nulla che non sapessimo, ma colpisce. Dobbiamo immaginare il mondo come avvolto da una ragnatela. In qualche punto più solida e compatta, in altri meno. Tutto è fortemente e strettamente collegato. Tendenze e dati che si intrecciano. Una grande complessità, difficile da cogliere nei suoi “fili rossi”.
A livello globale, ci sono state carenze talvolta anche pesanti di materie prime. Abbiamo letto pochi giorni fa di case automobilistiche non in grado di produrre perché mancano le forniture di componenti. O di produttori di pomodori pelati fermi perché non trovano le scatolette di latta per confezionarli. Costo in crescita del noleggio dei container con cui oggi viaggiano le merci, per la grande richiesta che c’è.
La globalizzazione d’altronde negli ultimi venti trenta anni ha sparso per tutto il mondo la manifattura dei prodotti o di loro parti, che poi viaggiano verso i luoghi finali di assemblaggio e confezionamento. Prima ancora, le materie prime viaggiano verso i luoghi di produzione. Poi, i prodotti finiti viaggiano verso i mercati di vendita. Sono le cosiddette catene del valore. La ragnatela.
Semplifichiamo. I mercati sono ripartiti piuttosto all’improvviso. La pandemia aveva causato notevoli rallentamenti, se non blocchi, produttivi. Dovuti sia alle limitazioni imposte ovunque, sia alla prudenza delle imprese rispetto ad un futuro incertissimo. Si era fermato (quasi) tutto. Non ci si riforniva più di materie prime, non si fabbricavano più prodotti intermedi. Ridotta l’estrazione di petrolio. Niente più ricostituzione delle scorte di magazzino. E così via. Carenze, mancanze.
Ripartire così forte e in così poco tempo ha messo a nudo subito queste carenze. Nel giro di giorni, non mesi. Questo ha portato subito a un aumento dei loro prezzi. E’ la normale legge del mercato libero: più c’è domanda di un qualcosa, più il suo prezzo sale.
Alla fine, chi produce ha costi maggiori perché, anche se riesce in qualche modo ad approvvigionarsene, paga di più le materie prime che gli servono. Quel maggior costo arriverà prima o poi al consumatore finale che paga un prezzo più alto rispetto a prima. Prezzi più alti alla fine possono portare un aumento dell’inflazione, come sappiamo tutti bene.
Ecco perché da un po’ di tempo si sentono in tv o si leggono sui giornali politici, economisti, tecnici, Governi, Banche Centrali che parlano di inflazione che sta rialzando la testa. A maggio in Europa c’è stato un aumento dei prezzi al consumo del 2%, rispetto all’1,6% di aprile. Tutti concentrati su questi temi, soprattutto per il timore che si innalzi troppo. Ti dicono che l’inflazione non dovrebbe essere mai superiore al 2% per mantenere condizioni, diciamo così di base, funzionali ad una crescita sana delle economie.
E quasi tutti concordano che, almeno per il momento, tutto fa ritenere che il rialzo dell’inflazione non sia strutturale e che non durerà. E’ un surriscaldamento, dovuto alle oggettive condizioni globali delle economie che tutte assieme quasi d’un tratto hanno ripreso a muoversi.
Ci dicono: è solo un malessere passeggero, entro l’anno sarà superato, è tutto sotto controllo. Ma che c’importa dell’inflazione? Perché ne parliamo? Intanto, banale, se l’inflazione sale e lo fa in modo stabile e consolidato, strutturale appunto, riduce il potere d’acquisto di ognuno: salendo i prezzi, se prima compravamo a 100 poi compriamo a 120, per dire. A meno che chi lavora non chieda poi di aumentare la remunerazione, qualunque sia il modo con cui ciò avvenga (intervento dello Stato, azioni sindacali, ecc.) per recuperare quel potere intaccato.
C’è dell’altro. Se l’inflazione si alza troppo e a lungo, gli Stati e le Banche centrali (come BCE in Europa o Federal Reserve in USA) intervengono per raffreddarla. Attraverso le leve di politica monetaria in genere si alzano i tassi di interesse (quelli che regolano il costo del denaro). Oggi sono pressoché attorno allo zero un po’ dovunque. Significa che chi vuole soldi da investire in attività se ne rifornisce a condizioni molto vantaggiose.
Potrebbe comportare anche che la BCE (e Federal Reserve) comprino (e quindi detengano) molti meno titoli di stato, come invece stanno facendo ormai da tempo. Lo chiamano quantitative easing.
La BCE aveva cominciato a farlo sotto la presidenza di Draghi. In parole molto povere con questi acquisti inondano il mercato di liquidità quindi facendo da stimolo all’intera economia.
Per l’Italia questo ha permesso – e continua a farlo – di tenere basso il famoso spread (la differenza di rendimento con i titoli di stato tedeschi, sicuri per definizione). BCE compra tuttora tanti titoli di stato italiani, e così tanta domanda tiene bassi i prezzi, ossia il rendimento sui titoli che lo Stato italiano deve garantire a chi li compra.
Senza BCE i mercati finanziari poco fiduciosi nell’Italia avrebbero operato perché quel rendimento salisse di parecchio. Di fatto abbiamo evitato la speculazione che ci avrebbe colato a picco. Se BCE smette, poiché i mercati potrebbero tornare a non avere troppa fiducia nelle nostre capacità di ripresa, lo spread potrebbe tornare a salire.
Con le ovvie conseguenze negative per i nostri conti pubblici: lo Stato paga interessi più alti sui titoli e aumenta così la spesa. Avendo un debito enorme, sarebbe assai rischioso.
L’aumento dell’inflazione potrebbe comportare dunque per l’Italia un effetto al rialzo sugli interessi che paga sul proprio debito pubblico. Chi investe in titoli pubblici chiede un maggior rendimento per compensare l’erosione del proprio capitale causata dalla crescita dell’inflazione.
E’ assai più complicato di così, ma già da queste poche cose si ha percezione di quanto e come tutto sia strettamente connesso e di come le conseguenze di eventi lontani si riverberino poi ovunque. Cose di cui non ci importa nulla, ma che alla fine possono toccarci duro. La ragnatela.
Nel nostro piccolo, non possiamo fare altro che darci da fare per utilizzare al meglio la massa di miliardi di euro che l’Europa ci dà per far ripartire e sviluppare la nostra economia, facendo le riforme di cui tanto si sente parlare, e andando incontro al futuro meglio equipaggiati. A maggior ragione, sapendo che quegli euro non saranno gratis.