Si parla tanto di globalizzazione. Nella storia ci sono state almeno due fasi di globalizzazione: tra fine Ottocento e primi del Novecento e subito dopo la seconda Guerra mondiale. Dagli anni Novanta fino quasi a oggi è seguita la terza ondata, più forte, quella che abbiamo imparato a conoscere tutti.
La crescente integrazione economica internazionale che, guidata dalla tecnologia dell’informazione, ha indotto molte imprese nei paesi avanzati a trasferire produzioni ad alta intensità di manodopera nei paesi in via di sviluppo, ha comportato la massima accelerazione del commercio internazionale e il trasferimento anche delle idee, creando così un’integrazione sociale, culturale, di costumi e di pensiero mai prima vista nella storia.
Questa integrazione è stata poi accompagnata dalla liberalizzazione dei flussi di capitale internazionale, che qualcuno ha definito la finanziarizzazione dell’economia.
Tutto è cambiato nelle relazioni economiche tra nazioni e all’interno di ogni nazione. Economiche e poi sociali e infine politiche. Perché la globalizzazione ha inciso nella vita quotidiana di ciascuno.
Oggi ovunque ormai si ammette che globalizzazione non è per forza tutto oro luccicante. Già la crisi finanziaria economica del 2007-2008 ha generato nei paesi avanzati contraccolpi che dall’economia si sono trasmessi alle società con conseguenze anche politiche. Brexit e Trump sono spiegabili anche in questo modo.
Spostare in paesi lontani e più arretrati interi cicli di produzione (la delocalizzazione, offshoring), accrescere l’automazione del lavoro, fanno certo risparmiare costi e aumentare la produttività ma possono creare qualche problema. Basta una parola: disuguaglianza oppure, se si preferisce, possiamo dire disparità economica. Nei paesi avanzati è diventato un argomento caldissimo. Si parla apertamente di crisi delle democrazie liberali sotto il peso delle sue conseguenze.
La pandemia Covid19 ha ancor più accelerato tutto questo con le sue pesantissime conseguenze sulle economie del mondo. E ha indotto ripensamenti profondi. Tanti si chiedono se non sia possibile un modello economico differente, più sostenibile. Non a caso in molti sostengono che la globalizzazione per come l’abbiamo conosciuta finora non sarà mai più la stessa.
Oggi si ragiona su capitalismo “buono” e sostenibile, su responsabilità sociali più ampie, su altri fattori di cui tener conto, oltre alla pura remunerazione dell’imprenditore e degli azionisti. Non più crescita pura e semplice, ma sviluppo sostenibile. Ossia una crescita socialmente e ambientalmente sostenibile che riesca a soddisfare i bisogni del presente senza compromettere la capacità di soddisfare quelli delle future generazioni.
Tutto questo induce a ritenere che forse il globale va temperato con molto locale. La visione di un mondo globale avviluppato nella fitta rete di commerci, interconnesso dalla rete digitale, deve essere equilibrata con la valorizzazione del locale, con il presidio non meno importante degli interessi locali.
Prendiamo la nostra Toscana. Eccelle in bellezza e cultura, l’ammirazione del mondo intero. Primeggia in tutto ciò che si muove grazie ad esse, l’industria del turismo in tutte le sue infinite fisionomie. Ma ha anche un settore manifatturiero di tutto rispetto fatto di produzioni di qualità ad alto valore aggiunto e di buon livello tecnologico. Le sue esportazioni hanno finora costituito una componente importante del benessere economico della regione.
Le filiere agroalimentari corte valorizzano il territorio, puntano alla qualità dei prodotti e dunque del cibo, non al puro risparmio dei costi di produzione. Hanno perciò maggiore rispondenza alle esigenze sempre più sentite di cibi di qualità che aiutano la nostra salute e rispettano l’ambiente. La pandemia ha reso più chiaro che qualità e vicinanza dei prodotti sono cruciali.
In Toscana abbiamo la bellezza e la cultura e pure la capacità di fare, e di fare bene, che ci riconoscono e ci invidiano in ogni parte del mondo. Occorre sostenerle, rendere loro la vita più facile, esaltare l’identità toscana.
E’ necessaria la presenza attiva, efficiente, continua delle istituzioni dello Stato, sia al centro che in periferia. Ma è altrettanto necessaria una mentalità imprenditoriale aperta e non conservatrice, fortemente collaborativa, attenta all’innovazione tecnologica e organizzativa.
La tecnologia digitale potrà essere di grande aiuto per innovare metodi produttivi e capacità di relazione con il mondo intero. Produzione di grande qualità che valorizza tutte le caratteristiche positive locali. E che veicola l’identità toscana nel mondo.