Prima che questo 2021 si concluda, vorrei ricordare un evento che in Italia è passato quasi inosservato per il grande, giustificato clamore che ha caratterizzato le celebrazioni dantesche.
Cinquecento anni dopo il Poeta, il 5 maggio del 1821, moriva un altro grande uomo, Napoleone Bonaparte, e mi piace ricordare come, giovanissimo, egli avesse condiviso le idee del padre quanto all’indipendenza dell’isola, che Genova era stata costretta a cedere alla Francia per i debiti mai onorati che la città aveva contratto con questa nazione. Un sogno a lungo accarezzato ma violentemente interrotto dalla schiacciante e sanguinosa vittoria militare delle armi francesi, che segnò di fatto il passaggio dell’isola nelle mani dei nuovi padroni. Il che, fra l’altro, avveniva pochi mesi prima della nascita del futuro Imperatore.
Quel che, tuttavia, vorrei evidenziare non riguarda l’ascesa al potere, le campagne militari, le vittorie o le sconfitte del generale, del Primo Console, dell’Imperatore, ma l’influenza che egli esercitò sull’Elba nei mesi febbrili del suo primo esilio, quando non solo trasformò l’isola in un importante centro culturale e politico ospitandovi poeti, artisti, intellettuali, ma lavorò alacremente alla costruzione e al restauro di molti edifici, riorganizzò la rete stradale, investì nelle ferriere e nelle tonnare. Ed anche come, con la scusa dei pirati magrebini, vi abbia istituito la leva obbligatoria e un embrione di marina militare dopo aver messo in sicurezza il canale di Piombino. Alla sua partenza, poi – da lettore accanito qual era − lasciò in dono alla Municipalità di Portoferraio ben 274 preziosi volumi già da lui ospitati alla Villa dei Mulini.
Ma soprattutto vorrei accennare a un aspetto meno noto, forse più umile ma certamente non secondario, della presenza francese nell’isola: l’influsso che probabilmente questa esercitò sulla cucina elbana e che si rivela almeno in un paio delle sue preparazioni. Una volta tanto cedo alla tentazione di non muovermi sul terreno solido dei documenti ma di avventurarmi su quello infido e melmoso delle supposizioni. Del resto, è tutto ciò che è possibile fare, dato che sull’argomento non esistono prove o documenti di alcun genere. E dato anche il proverbiale odio di Napoleone per l’odore dei cibi e delle cucine.
Nelle memorie di Louis Constant Wairy, suo primo valletto, si legge che l’Imperatore era uso mangiare da solo, rapidamente, spesso con le mani “e senza neppure la tovaglia”. Erano del resto frequenti le volte in cui saltava i pasti o arrivava a tavola talmente in ritardo da obbligare i suoi convitati ad un ritmo vertiginoso per tenere il passo. E in battaglia non toccava cibo prima della sua conclusione.
Disdegnava il vino, della cui qualità non si curava e che preferiva allungare con l’acqua, amava piatti semplici ed essenziali come le zuppe di patate, di fagioli e di cipolle, le cotolette e, tra la frutta, le albicocche. Quanto al pollo, c’è chi sostiene che lo adorasse (forse perché facile da reperire anche nelle campagne di guerra e comodo da mangiare, appunto, con le mani) e che anche il suo ultimo pasto fosse a base di pollo.
Notizia controversa, perché i 365 modi di cucinare il pollo che si vantava di aver escogitato il suo dotto gastronomo, il marchese Louis Ambroise de Cussy, potrebbero esser stati dettati sia da un’indiscussa predilezione sia da una grande insofferenza nei confronti delle carni insipide di questo volatile e della monotonia di piatti che lo vedevano come protagonista.
In realtà, di tutte queste ricette non è restata traccia ma solo qualche vaga memoria. L’unica a sopravvivere all’usura del tempo (e a essere oggetto di varie “rivisitazioni”) è quella arcinota del “pollo alla Marengo”, che si narra esser stato servito a Napoleone dopo una lunga giornata di aspri combattimenti contro gli austriaci nei pressi dell’omonima frazione della provincia di Alessandria (14 giugno 1800). Un piatto che alcuni attribuiscono all’inventiva di una solerte ostessa del luogo, ma che più probabilmente nacque dalla necessità del cuoco dell’allora Primo Console, Dunand, di servirgli un piatto succulento con gli scarsi ingredienti reperibili in loco. Sempre che non si tratti di un falso storico, dato che c’è anche chi sostiene che si tratti di una preparazione già nota alla cucina tradizionale piemontese.
Ma torniamo all’Elba, dove la piccola comunità al seguito dell’Imperatore in esilio sembrava essersi impiantata saldamente e dove non erano rare le visite di quanti vi accorrevano nella speranza di incontrare l’uomo che aveva tenuto in scacco i regnanti d’Europa. La sua cucina, mediterranea per naturale collocazione dell’isola, ma anche legata a quella maremmana e appenninica, presenta piatti il cui nome e i cui ingredienti ricordano quella spagnola. Così è per la sopa, la zuppa, o il pumento, il peperoncino. Così è anche per il gaspaccio di Porto Azzurro, uno stufato di verdure, che in altre zone dell’isola è detto gurguglione. Ma, se il gaspaccio ci rinvia all’influenza ispanica e al gazpacho, con cui il piatto elbano ha tuttavia ben poco da spartire, dato che si tratta di una zuppa fredda di verdure crude preparato soprattutto d’estate in regioni come l’Andalusia, il gurguglione sembra rifarsi invece, sia nel nome quasi evocativo del sobbollire nel tegame sia nella preparazione e nell’aspetto finale del piatto, alla provenzale ratatouille. Ed è indubbio che ricordi sia negli ingredienti che nel nome la raisiné della Borgogna, del Périgord e della regione di Montpellier la marmellata d’uva elbana, detta appunto resinè.
Magia delle parole, magia della cucina.