I periodi di transizione sono per definizione i più ricchi di fermento: sociale, artistico, politico ed economico.
Il lasso temporale che ha raccordato l’Ottocento al Secolo breve è stato tutto questo all’ennesima potenza e la Vienna degli Asburgo, sull’orlo dell’imminente precipizio del primo conflitto mondiale, è stata la culla di innovazioni dalla lunghissima portata.
Si afferma gradualmente la teoria rivoluzionaria (e per molti disturbante e inaccettabile) della psicoanalisi di Sigmund Freud; in campo musicale il contributo innovativo di Arnold Schönberg, con la dodecafonia, stravolge la gerarchia consolidata del sistema tonale; nelle arti si affacciano tendenze in aperta rottura con la classicità delle accademie.
L’arte di Gustav Klimt, e degli altri artisti che con lui diedero vita alla Secessione viennese, si inserisce in pieno in questa temperie portatrice del Nuovo. Partendo da solide basi classiche, l’artista austriaco modula e definisce nel corso di pochi anni (morirà relativamente giovane) la sua poetica visiva, che ha come fulcro imprescindibile la rappresentazione delle molteplici sfaccettature del femminile.
Sicuramente le donne le ha molto amate ed ammirate (e da loro è stato molto amato a sua volta), lo si evince con facilità, semplicemente osservando i suoi dipinti. Traspare da ogni linea, da ogni riverbero di luce, da ogni scelta coloristica una fascinazione profonda per tutto quello che la donna, consapevole o acerba, incarna.
Soprattutto è nuova, grazie al pittore viennese, la rappresentazione di un femminile bifronte, ambiguamente potente e finanche pericoloso: una combinazione sensualissima di innocenza e voluttà, di lineamenti angelicati e occhi di braci ardenti; la purezza delle linee di un collo, di una clavicola, di un’onda della capigliatura si accompagna senza stridore a una forza magnetica che traluce dallo sguardo, dalla piega della bocca, da un sorriso bianchissimo da lupa dei boschi.
L’emblema di tutto questo caleidoscopio muliebre è la celeberrima Giuditta I, la prima versione che l’artista dedica all’eroina biblica, proveniente dalla Galleria del Belvedere di Vienna. È il polo principale di attrazione della mostra capitolina, insieme al Ritratto di Signora, ritrovato dopo una sparizione lunga ventidue anni e in prestito dalla piacentina Galleria Ricci Oddi.
Lo sguardo della Giuditta klimtiana ha fatto consumare agli studiosi d’arte ingenti quantitativi di carta e inchiostro (e più recentemente di byte), e non è difficile comprenderne il motivo. Si resta completamente inebetiti dinanzi a questo volto di giovane donna, che gioisce sorniona del suo macabro trofeo, la testa del generale assiro Oloferne non ostentata, ma quasi mollemente trattenuta dalla mano destra, col braccio che si fa sublime linea parallela al lato corto della tela. Sontuoso il leggero mantello dorato che la ricopre solo parzialmente, come sontuosa è la famosa collana, mentre la nudità del busto è incredibilmente casta. La potenza conturbante non sta nel seno scoperto, ma tutta nello sguardo: è lo sguardo languido conseguente a un climax non erotico (o almeno non canonicamente tale) bensì sanguinario, è il baluginio placidamente trionfante di una belva che ha sbranato un suo simile per proteggere i suoi cuccioli. Oloferne, minaccia incombente per il popolo ebraico, cui Giuditta appartiene, è caduto nelle spire di questa indomabile astuzia vitale, vittima goffamente inconsapevole della propria hybris, della vanità di conquista di un femminile lucido e inafferrabile.
L’oro dei dettagli preziosi e della cornice metallica, che è un tutt’uno col dipinto, i tocchi di colore per rendere lo scintillio delle gemme, la pelle candida e luminosa di Giuditta, in contrasto violento col nero dei capelli, tutto concorre ad avvincere l’occhio dello spettatore, rendendo il dipinto un vortice lento ma inesorabile di attrazione fatale.
Immaginare e dipingere una donna così, una dark lady senza tempo, all’alba del XX secolo è stato un atto sinuosamente rivoluzionario.