La Befana vien di notte
con le scarpe tutte rotte
attraversa tutti i tetti
porta bambole e confetti
Liturgicamente il giorno della Befana è l’Epifania, dal greco epifáneia poi corrotto in pifania, bifania e befania. Un termine che significava “apparizione” e con cui dunque oggi si indica la manifestazione di Dio agli uomini nel suo Figlio, e di questi ai Magi.
Ma non è sempre stato così. Agli albori del Cristianesimo si riferiva infatti alla triplice celebrazione della nascita del Cristo insieme all’adorazione dei Magi, del battesimo nel Giordano e del primo miracolo a Cana, tutte manifestazioni della Sua divinità. Tra IV e V secolo la festa si diffuse a Roma soprattutto come celebrazione della rivelazione del Cristo ai pagani, mentre in Oriente ricordava il suo battesimo e il primo miracolo.
Nelle campagne, quella tra il 5 e il 6 gennaio era considerata una notte magica in cui gli animali domestici e selvatici si scambiavano parole umane; una notte da celebrare con feste e riti riferiti soprattutto alla “stella”; una notte in cui erano i tre Re a portare i doni ai bambini, prima ancora che si affermasse la consuetudine di farli distribuire dal Bambino nella notte di Natale.
Fin qui tutto bene, ma come si spiega il legame tra la Vecchia, per tanti versi simile a una strega, e la manifestazione del Bambino?
Si narra che i Re Magi in viaggio per Betlemme chiedessero ad una vecchia di accompagnarli per mostrare loro la via da seguire per portare i doni al Salvatore. La donna rifiutò, ma poco dopo, pentita, si mise sulle loro tracce con un sacco pieno di doni. Non riuscendo a raggiungerli, bussò a tutte le porte per consegnare quei doni ai bambini nella speranza che il suo rifiuto fosse perdonato.
Ma alla luce dell’uso, vivo in alcune feste popolari dell’Epifania, di segare o di bruciare un pupazzo detto la vecia o la stria, la storia va collocata tra quelle create per “cristianizzare” una figura che ha origini molto più antiche. La vecchia rinsecchita rinvierebbe infatti al simbolo arcaico della Natura che invecchia e rinsecchisce nel corso dell’anno per poi risorgere, giovinetta, in primavera. Segata, spande dolciumi e regalini, simbolo dei nuovi semi che germoglieranno nei campi; bruciata, diventa carbone, simbolo dell’energia della terra.
Morte e rinascita di Madre Natura, quindi, già celebrata a Roma nella dodicesima notte dopo il solstizio invernale, quando si credeva che delle figure femminili volassero sui campi coltivati per propiziarne la fertilità. Ma c’è chi identifica la figura della vecchia volante in Diana, la dea lunare legata non solo alla cacciagione ma anche alla vegetazione, o con divinità minori del pantheon latino come Sàtia, dea della sazietà, o Abùndia, dea dell’abbondanza. Oppure la collega a una festa in onore degli dei Giano e Strenia (da cui “strenna”), durante la quale ci si scambiavano regali.
Questo in area mediterranea. Nel Nordeuropa altre sono le figure femminili (Frigg, Holda, Bertha, Berchta, a seconda dei luoghi) che rappresentano la natura invernale, e tuttavia identica è la loro identificazione in una vecchia gobba con naso adunco, capelli bianchi spettinati e piedi abnormi, vestita di stracci e scarpe rotte, e identica la funzione da lei svolta nel rendere fertili i campi col suo volo notturno.