Luce, splendore, immortalità, fecondità, ricchezza, potenza, conoscenza, dominio. Sono qualità e simboli solari che, attribuiti dagli antichi all’oro, sono stati estesi a quello che è stato chiamato «oro rosso», l’oro vegetale, lo zafferano.
Di qui le utilizzazioni sacre di questa spezia che, considerata simbolo della saggezza rivelata, ha donato il suo colore alle vesti dei monaci buddisti; di qui la credenza nel suo benefico influsso sul cuore, nella sua capacità di prolungare la vita, di rafforzare l’energia vitale, di guarire malattie ritenute incurabili come la lebbra, le ulcere cancerose, la peste e altro ancora; di qui anche il suo potere afrodisiaco che nell’antica Tiro, in Grecia, a Roma, in India, ne collegava il colore ai riti nuziali e lo farà usare in molte corti italiane del Rinascimento per profumare le cuffie di mussolina o di garza multicolore delle dame o per conferire una particolare tonalità biondo rame ai loro capelli.
Se è facilmente rintracciabile la possibile etimologia dei due nomi con cui è noto in Occidente, croco (termine passato al latino classico dalle lingue semitiche) e zafferano (forse dall’arabo zaʿfarān, da cui safaranum nel latino medievale), che rispettivamente significano “filamento, legame” e “il giallo, “lo splendore”, quasi niente si sa della sua reale origine. La leggenda greca costruita sulle tradizioni orali dell’Asia Minore la attribuisce a Hermes, il messaggero degli dei, la guida delle anime nell’oltretomba. Il suo nome stesso, Crocus sativus, è legato a Crocos, l’amico del dio, da lui ferito a morte mentre giocavano insieme e da lui reso immortale nel ricordo trasformando Il sangue sgorgato dalla sua testa nei fiori violetti dai preziosi stimmi cremisi.
Poiché dunque si riteneva che i lunghi stimmi del croco stessero a indicare il legame d’amore, il fiore ne simboleggiava il desiderio e veniva posto sulle tombe degli amanti condotti a morte dalla violenza del loro sentimento.
Anticamente apprezzato per i suoi molteplici impieghi (in medicina e in tintoria, in profumeria e in cucina) lo zafferano era coltivato nei giardini pensili di Babilonia per arricchire le essenze aromatiche di Semiramide e a Gerusalemme per la preparazione di profumi ad uso liturgico. Gli Assiri lo usavano per celebrare Astarte, la dea dell’amore; a Luxor lo si mischiava a poche altre piante aromatiche e all’altro oro commestibile, il miele, per produrre il kupha, un composto assunto anche dai faraoni per ridestare il desiderio sessuale.
Allo zafferano, del resto, sono sempre state attribuite virtù afrodisiache e in Grecia, dove lo si importava dall’Oriente per realizzare oli profumati e per applicazioni di aromaterapia, si narrava che Zeus ed Era lo avessero scelto per ricoprire il talamo nuziale e che fiori zafferano sbocciassero sui prati su cui si lasciavano travolgere dalla passione.
Color zafferano erano il peplo di Eos, l’Aurora, e la tunica di Imeneo, protettore del vincolo matrimoniale; i Romani ne cospargevano il letto dei novelli sposi e i triclini dove i convitati si allungavano per il banchetto nuziale, ma lo disseminavano anche sulla strada degli imperatori e sul pavimento delle sale che ospitavano i loro festini.
Ma, così come nel mito esso evoca simboli opposti legati all’amore, e dunque alla fecondità, e alla morte, nella medicina riveste il duplice e conflittuale ruolo di panacea universale e pericoloso veleno.
Già Dioscoride aveva messo in guardia contro il croco di Tessaglia disciolto in acqua; notizia poi ripresa da numerosi medici del Rinascimento, tra cui Michele Savonarola, zio di frate Girolamo, e da Andrea Mattioli, che ne raccomandava un uso moderato.
Del resto, nel linguaggio dei fiori il croco indica “usarne, non abusarne”: nella fattispecie, una leggera infusione di zafferano mette di buon umore, ma chi esagera con le dosi può soffrire di allucinazioni fino al delirio. Un cordiale e un tonico, quindi, tanto che di un uomo allegro e ridanciano si diceva “dormivit in sacco croci”, ha dormito in un sacco di zafferano.
Poco si sa del suo ingresso in Europa. Sembra tuttavia che sia stato introdotto in Spagna dopo la conquista islamica della penisola, dove è attestato intorno al 960, ma che sia giunto in Italia, Francia, Inghilterra e Germania grazie ai crociati e ai pellegrini di ritorno dalla Terrasanta.
Le varietà del croco, alcune delle quali difficili da reperire sul mercato, differiscono per intensità dell’aroma, colore e sapore a seconda delle zone di provenienza, siano esse Spagna, Iran, Grecia, Kashmir e Marocco, che ne sono i maggiori produttori.
Quanto all’Italia, a partire dal basso Medioevo ebbe una certa diffusione nella zona collinare torinese e astigiana, nell’area monferrina e nell’area cuneense, nei cui Statuti risulta generalmente una coltura protetta con l’imposizione di pesanti multe a chi ne danneggiasse le coltivazioni.
E dall’esame di Catasti e Statuti quattro-cinquecenteschi risulta chiaramente che la coltivazione degli “zaffarani” veniva praticata anche sul territorio dell’attuale provincia di Firenze, in Valdelsa, nel territorio di Città della Pieve e in quello della Valnerina, ma soprattutto a Norcia e a Cascia, che rivaleggiavano con la più famosa area di produzione di Navelli, poco lontano dall’Aquila, in Abruzzo.
Di più: a Cascia il commercio di questa preziosa derrata, per quanto non sempre lecito, era tanto fiorente da far affluire in città mercanti ebrei che lo smerciavano a Perugia, Civitanova, Camerino e Spoleto, aprendo botteghe anche a Foligno.
Fino a tutto il XVI secolo Cascia e lo Spoletino furono quindi tra le più importanti aree di produzione umbra di zafferano (che si dice utilizzato anche dal Perugino per la sua tavolozza). Quanto all’Aquila, si sa che per potersi accaparrare il prodotto le imprese più floride di Norimberga acquistarono case in città e vi si radicarono. Proprio a Norimberga, del resto, era stato arso vivo nel 1444 insieme alla prova del suo delitto un droghiere reo di aver adulterato la preziosa spezia.
A quest’enorme fortuna farà seguito, nel Seicento, un repentino crollo causato da due diversi ordini di fattori. Da un lato, la dominazione spagnola che, estesa a gran parte della penisola, aveva determinato il regredire di molte attività produttive colpendo nella fattispecie i settori tessile e gastronomico, costretti a utilizzare al posto dello zafferano locale il meno pregiato prodotto iberico.
Dall’altro, la trasformazione in atto in campo terapeutico e l’insorgere dei nuovi gusti orientati verso i più “naturali” profumi dell’orto che, uniti all’allargamento della produzione e alla facilità d’acquisto delle droghe pregiate avevano tolto loro ogni attrattiva.
Gli stimmi del croco, in particolare, avevano avuto tanto successo nel Rinascimento proprio perché, in un’epoca in cui il banchetto era occasione per ostentare ricchezza e potere, davano l’illusione dell’oro quell’oro che, ridotto in lamine sottilissime, spesso avvolgeva le vivande, aderendo perfettamente alle carni arrostite, alle torte, ai castelli di zucchero. Quell’oro che la farmacopea considerava una medicina sicura contro un gran numero di mali.
Ormai reperibile con facilità, anche l’aureo zafferano cessò di essere un elemento di distinzione e fu vittima di un lungo oblio. Basti pensare che per molto tempo in Abruzzo sopravvisse solo come colorante della pizza di Pasqua, mentre in altri luoghi lo si utilizzava per conferire maggior pregio ad alcuni tipi di formaggio. Con buona pace del suo glorioso passato.