Voglio iniziare questa mio primo articolo con una riflessione sulla ormai storica frase della nostra sottosegretaria al Ministero dell’economia Laura Castelli che, qualche settimana fa, ha dichiarato: “Ristoratori senza clienti? Reinventatevi un mestiere”. Di sicuro era una battuta. Perché da reinventare non c’è nulla in quanto, almeno da quando abbiamo testimonianze adeguate, l’arte della cucina si è continuamente evoluta. E in parallelo si è modificata la ristorazione.
Il più antico modello di ristorazione pubblica a noi noto era la taberna, termine che accomunava una serie di locali diversi fra loro e tutti poco raccomandabili, da quelli destinati, oltre che alla somministrazione di cibo a buon mercato, alla mescita di vino (cauponae, popinae, thermopolia, gurgustia che fossero), ma anche al pernottamento. La pessima fama di questi luoghi di incontro di persone di diverse classi sociali e paesi diversi, si estendeva naturalmente ai loro gestori, disprezzati e spesso accusati di azioni disoneste se non addirittura, specie in tempo di carestia, infami.
Accanto a questi le lixae, i banchi (all’occorrenza protetti da tendoni) su cui gli ambulanti esponevano i loro cibi. Anche in età medievale non solo vi si poteva acquistare o consumare cibo e bevande ma, all’occorrenza, alloggiare se c’erano camere disponibili per i forestieri (che poi erano gli unici a poter rimanere ai tavoli oltre l’orario di chiusura severamente imposto dal suono della campana).
Grandi o piccole, umili o ben attrezzate, di buona nomea o malfamate, le taverne punteggiavano non solo le città, ma anche le strade di transito e i villaggi, perché i viaggiatori erano numerosi e quasi tutti con l’esigenza di usufruire di cibo e ospitalità a basso costo.
Né mancavano (e lo street food ne ha raccolto l’eredità) le taverne “mobili”: carri che potevano fermarsi in luoghi ritenuti idonei a impiantare tavoli e sgabelli per smerciare i loro prodotti. Alla fin fine era “cibo da taverna” tutto quel che era poco costoso, facile da reperire, semplice da preparare, e adatto a stimolare la sete.
Nelle città medievali le taverrne erano luoghi di ristoro, sesso a buon mercato, gioco d’azzardo soprattutto per i ceti subalterni. Ma sulle vie di transito vi si fermavano anche i nobili. Cecco Angiolieri le frequentava in quanto “la donna, la taverna e il dado” erano le uniche cose che gli facessero “’l cuor lieto sentire”. Il Magnifico Lorenzo alternava la rozza ma saporita cucina dell’Osteria delle Bertucce a quella riccamente speziata dei cuochi di palazzo. Pietro Aretino, affermava che “Chi non è stato a la taverna non sa che paradiso si sia… O taverna santa, o taverna miracolosa… per gli spedoni che si voltano per sé stessi… ricamati di tordi, di pernici e di capponi”.
Luoghi malfamati, attrezzate cucine aristocratiche, monasteri… ben diversi i primi ristoranti, in cui si effettuò il passaggio ad ambienti eleganti dove si poteva mangiar bene. Una trasformazione lenta ma inarrestabile che si ebbe in Francia (che ormai aveva surclassato l’Italia quanto alla varietà, genuinità, raffinatezza delle vivande). Già al tempo del Re Sole da alcuni cabarets i cibi potevano esser serviti su eleganti vassoi alle carrozze e certe osterie erano frequentate da nobili come il celebre marchese de Béchamel.
Ma fu solo nel 1765 che, sfidando l’ostilità delle corporazioni di fornai, osti e trattori, tal Boulanger, titolare di un bouillon (dove era lecita la sola vendita di brodo e bollito), azzardò un menù più completo al grido di “Venez, tous, et je vous restaurerai” (Venite, io vi ristorerò), un invito al ristoro adeguato a tutte le tasche. Era nato il ‘ristorante’ che avrebbe spianato la strada a quelli di lusso, aperti dai cuochi delle grandi famiglie rimasti senza lavoro dopo la decimazione seguita alla Rivoluzione del 1789. In parallelo, il Café Hardy anticipava il self service servendo ‘colazioni alla forchetta’ ai politici frettolosi.
E poi ancora invenzioni e reinvenzioni, con le brigate di cucina che riprendono la suddivisione degli incarichi già puntigliosamente descritta e osservata tra XV e XVI secolo, o i servizi ‘alla russa’, ‘all’inglese’ e più recentemente “all’americana’, che ripetono con poche varianti schemi in uso con altri nomi in passato, l’attenzione alla presentazione del cibo nel piatto o vassoio, oggi ribadita in alcune note produzioni televisive italiane e straniere.
Nihil novi sub sole, (non c’è niente di nuovo sotto il sole) insomma, nonostante la ricchezza e la varietà dei locali odierni in cui l’offerta è caratterizzata da una stupefacente varietà di cucine: tradizionali, rivisitate, etniche, fusion, vegane, molecolari… e chi più ne ha più ne metta. Così come illusione è quella di aver scoperto in tempi recenti la cucina del mercato fondata su prodotti freschi e di qualità, già raccomandati in antichi testi. Perché il concetto del ‘mangiar sano’, già presente nei volumi degli agronomi romani come Columella, era esposto diffusamente nei “Tacuina sanitatis” medievali e nelle opere della mistica Ildegerda di Bingen, dall’umanista Platina, dei medici del Cinquecento.
Vero è che in essi i parametri di valutazione del giusto rapporto fra cibo e individuo erano radicalmente diversi da quelli odierni, come diversa era la cosiddetta ‘piramide alimentare’. Tuttavia, i cuochi di corte, che con i medici erano i responsabili del benessere del loro signore e della sua famiglia, possedevano una vasta conoscenza di che cosa, come e in quali proporzioni dovesse esser preparato per non recare ‘nocumento’ se non addirittura per favorire il recupero della salute…
E allora, reinventarsi come?