Quante volte nell’ultimo anno abbiamo sentito e letto a proposito di smart working. Il lavoro da casa al quale siamo stati purtroppo costretti. Tradotto dall’inglese è “lavoro intelligente”. Che sembra già una bella presunzione, come se l’’altro’ lavoro non lo fosse. Nella normativa italiana si parla di lavoro agile, nella comunicazione di tutti i giorni è prevalso però la definizione che conosciamo tutti. Peccato che in inglese questa locuzione non esista nel significato che le attribuiamo noi. Nel mondo anglosassone dicono remote working oppure working from home, in acronimo WFH. Sono più precisi.
A parte le definizioni, è per tutti limpido il significato? A stretto rigore, il lavoro agile è la possibilità di svolgere il proprio lavoro da qualunque luogo diverso dall’azienda, senza alcun vincolo di orario e di strumentazione Già capiamo che questo non corrisponde in pieno alla realtà che la maggior parte di noi conosce. Nella grande maggioranza di casi di questo ultimo anno, le nostre imprese si sono organizzate, più o meno bene, per far lavorare essenzialmente da casa i propri collaboratori. Spesso fornendo loro (sebbene non sempre) gli strumenti tecnologici, dando indicazioni sugli orari da rispettare. Non esattamente il lavoro agile puro. Più correttamente, è lavoro da casa o, se proprio vogliamo cedere alla moda di usare l’inglese a tutti i costi, remote working.
Ovviamente questo ha i suoi pro e i suoi contro. Tra i primi, quello di agevolare un migliore equilibrio dei tempi di vita e di lavoro. E di alleggerire l’impatto negativo sull’ambiente, spostandoci meno si inquina meno. In verità ci sono anche benefici sull’organizzazione delle aziende, che devono orientarsi più ad una gestione per obiettivi assegnati e relativa autonomia concessa ai lavoratori, anziché sul classico loro “comando e controllo”.
Flessibilità operativa, perché posso organizzarmi meglio la giornata di lavoro più in funzione di me stesso che dell’organizzazione. Maggiore responsabilizzazione sui risultati e non tanto sui compiti, magari anche maggiore produttività in quanto alla fine dedico più tempo al lavoro, non fosse altro perché risparmio i tempi di spostamento. Non è il caso qui di approfondire, basti dire che, se ben attuata, è un’organizzazione del lavoro molto differente da quella più tradizionale. Certo più moderna, per tacer d’altro.
E gli aspetti negativi? Si fa presto a dire digitale, ma la connessione? Il nostro paese ancora ha da fare molta strada: da noi la banda anzichè larga è ancora piuttosto striminzita. Non entriamo poi nelle questioni della organizzazione familiare necessaria per gestire il lavoro da casa, tutt’altro che banale e che spesso penalizza fortemente le donne.
Ma c’è altro ancora. L’essere umano, l’Homo Sapiens, dalla Preistoria se è arrivato dove è arrivato, è anche grazie alla capacità di entrare e stare in relazione con i suoi simili meglio di ogni altro animale. Sul luogo di lavoro è fondamentale la possibilità di sostare in dinamiche di relazione con i colleghi, con chiunque. Vedersi negli occhi, veder vibrare negli altri le emozioni, condividere risate e sconforti, sono momenti insostituibili. E tutto questo aiuta anche la creatività. Si parla tanto di innovazione in ogni ambito della vita: essa nasce molto spesso, o almeno è stimolata, dal confronto, dallo scambiarsi sguardi, idee serie e facezie.
Non può essere la stessa cosa se tutto questo è filtrato da un pc, se siamo soli con la finestra del video aperta sì sul mondo ma senza nessuno accanto che ti sfiora la mano.
Tutto questo per dire che il futuro dovrà per forza trovare un giusto equilibrio tra il lavoro remoto da casa e quello in presenza in azienda. Si sente dire talvolta di imprese che hanno già fatto la drastica scelta di tenere tutti i collaboratori in remote working, anche dopo la fine della pandemia. O, al contrario, di non consentire più alcuna forma di lavoro del genere, appena possibile. Ma è meglio andarci cauti, in entrambi i casi.
Già è facilmente comprensibile che certi tipi di impresa abbiano minori possibilità di ricorrere al lavoro da remoto, un conto è fornire servizi finanziari, un altro gestire linee di produzione sofisticate. Vi sono fattori organizzativi, tecnologici, di cultura e valori aziendali di cui tener conto. In ogni caso nel fare scelte sul tema, l’impresa fa una approfondita analisi e decide di conseguenza quali ruoli possono essere svolti in modo efficiente anche da casa e quali assolutamente no. Può sembrare banale e ridondante dover fare un’analisi, ma soffermarsi a pensare in modo critico spesso porta a galla cose sottovalutate o non considerate. Non moda ma riflessione seria, dunque.
Istituzioni e società di consulenza hanno dedicato moltissime ricerche a quanto è successo nell’ultimo anno a proposito di smart working, a livello globale o di singolo paese. Abbiamo statistiche ricche e di ogni genere. Rammentiamo allora qualche semplice dato su quello che è stato fin qui. Poi vediamo qualche proiezione per il futuro prossimo.
A marzo del 2020, all’esplosione della pandemia e al conseguente confinamento, secondo l’Osservatorio del Politecnico di Milano, uno degli enti più attivi sul tema, in Italia erano circa 6,6 milioni i lavoratori che lavoravano da casa (dei quali circa 1,8 milioni nella pubblica amministrazione), circa il 1000% in più rispetto all’anno precedente. A settembre erano scesi a circa 5 milioni. Durante la pandemia nel 2020 in Italia circa il 40% dei lavoratori ha lavorato pressochè solo da casa, rispetto alla media europea del 34%.
Insomma chiamiamolo come vogliamo, ma si tratta sempre di un fenomeno che da essere quasi inesistente è diventato di massa. Certo, non c’erano alternative. E il futuro? Anche qui ci sono moltissimi studi. Emerge comunque una specie di “filo rosso” che li unisce tutti.
Quello che è successo fin qui non potrà non lasciare tracce. Tutti sono concordi nel ritenere che il lavoro da remoto continuerà anche a pandemia finita. Troppi gli aspetti positivi, i benefici che si sono toccati con mano, sia per chi lavora, sia per le aziende, sia per l’ambiente. Ma torneremo ad un maggiore equilibrio, proprio perché ci sono pure i fattori negativi, ne abbiamo ricordati alcuni.
Sarà più bilanciato il tempo di presenza diretta in azienda con quello trascorso a lavorare a casa. Saranno più bilanciate le percentuali di aziende che lo consentiranno e di aziende che invece vorranno disporre di tutti i collaboratori in sede.
Un’indagine recentissima svolta da Fondirigenti (Fondo interprofessionale per la formazione continua di Confindustria e FederManager) presso un campione italiano molto rappresentativo di aziende e lavoratori indica che ben il 54% delle imprese vogliono continuare in modo permanente con il lavoro da remoto anche dopo la pandemia.
Durante il primo lockdown nel 2020 si è lavorato in remote working per una media di 4,27 giorni a settimana, quasi intera dunque. Sono scesi a fine 2020 a circa 3,19. Considerando questi dati, è molto interessante quanto l’insieme dei lavoratori dell’indagine Fondirigenti dice a proposito della ideale suddivisione tra lavoro da casa e presenza in ufficio: la media è di 2,6 giorni medi a settimana in presenza e 2,4 a distanza. L’equilibrio di cui si diceva all’inizio.
Un cambiamento imposto pesantemente dagli eventi si consoliderà nel tempo. Con conseguenze a cascata: i servizi di bar e ristoranti, i trasporti, le connessioni digitali efficienti, la minore esigenza di locali per uffici. Molto altro. Ci sarà da darsi parecchio da fare.