Tubero misterioso, il tartufo, anzi misterico. Cresce sottoterra, prezioso come l’oro che si credeva maturasse in vene sotterranee, ma c’era chi, come Teofrasto, lo riteneva prodotto dalla caduta dei fulmini.

Inoltre questo “callo della terra” (come lo definisce Plinio in quanto “cresce isolato e circondato di sola terra, la secca e fruttifera terra della lodatissima Africa”) lo si cerca con il cane o il porco. animali immondi e al tempo stesso sacrali, legati alla notte e alla fecondità.

Tuberi africani, quindi, le terfezie, tipiche delle regioni desertiche o semidesertiche, in uso nella cucina per i “nuovi ricchi” dell’antica Roma, la cucina di Lucullo e di Apicio che insegna come conservarli, consiglia di condirli con una salsa a base di pepe, ruta, miele, olio e altri ingredienti, fornisce sei ricette per la loro cottura, li considera insomma una vera e propria pietanza, non un mezzo per condire o impreziosire i piatti. Tuberi comunque assai diversi e di qualità più modesta rispetto a quelli che oggi tanto apprezziamo.

Fu forse la concezione medievale dell’ordine naturale del cosmo − che vedeva tutti gli esseri viventi disposti lungo una catena verticale che procedeva da sottoterra (o dagli abissi marini) al cielo e in cui valore era determinato dalla posizione che ognuno di essi occupava − una delle cause della scomparsa del tartufo dai ricettari del tempo. Come tutti i bulbi e le radici la cui parte commestibile affonda nel suolo, infatti, era troppo vicino al mondo sotterraneo, dominio del maligno, per esser ritenuto degno delle tavole dei signori quando non lo considerava pericoloso per la loro salute di cui il cuoco era il garante.

Il Tacuinum sanitatis, tuttavia, oltre a mettere in guardia contro il suo influsso negativo sull’umore, da combattere con l’antico condimento a base di pepe, olio e miele, ricorda la tartufula (o il tartufullus) per le sue virtù afrodisiache: una fama derivante forse da Pitagora e Galeno quando affermava che “è molto nutriente e può disporre della voluttà”. Del resto anche Avicenna (ca. 980-1037), nel primo volume del Canone, opera monumentale di straordinaria sintesi del sapere medico del tempo, aveva ricondotto al consumo di tartufo patologie importanti come la paralisi e l’apoplessia.
Duplice visione della scienza medica del tempo, che riflette i due diversi schieramenti del gusto nei confronti del prezioso tubero, che tuttavia non era più la poco profumata Tarfezia africana ma il vero e proprio Tuber terrae, per quanto non ancora della qualità più pregiata.

Ed è probabile che − nonostante si possano interpretare alcuni versi del Petrarca come un oscuro riferimento al tartufo − il suo cammino glorioso riprenda solo dopo la scoperta, a metà Quattrocento, del De re coquinaria di Apicio ad opera dell’umanista Enoch d’Ascoli. A partire da questo momento, infatti, ecco medici ed eruditi concordare sul suo potere afrodisiaco e ciarlatani preparare elisir d’amore a base della sua essenza sfruttando una fama che perdurerà nei trattati di gastronomia del Seicento, nelle memorie di Giacomo Casanova, in un poema di Bernardo Vigo, e che ritroveremo persino in alcuni scritti del medico e antropologo Paolo Mantegazza (Elementi d’Igiene, 1871; Igiene dell’amore, 1879) in cui lo definiva “mistero poetico del mondo astronomico” e “amico dei piaceri d’amore”.

Gastronomo raffinato, Gioacchino Rossini lo diceva “il Mozart dei funghi”, mentre lord Byron lo teneva sulla scrivania per alimentare la propria fantasia con il suo profumo.

Da parte sua, Brillat-Savarin lo definisce il “diamante della cucina” che ridesta “ricordi erotici e golosi” in entrambi i sessi, rendendo più tenere le donne e più amabili gli uomini. Ma ancora più esauriente e significativa è la voce contenuta nel Grande dictionnaire de cuisine di Alexandre Dumas, pubblicato postumo nel 1873, che lo considera il “sacrum sacrorum dei gastronomi di tutte le epoche” e afferma che tratteggiarne la storia equivale a ripercorrere quella della civiltà del mondo. Se interrogati sulla sua natura, egli dice, dopo duemila anni di discussioni i sapienti non saprebbero cosa dire, e lo stesso tartufo risponderebbe semplicemente “Mangiatemi e adorate Dio”.

Rispondi