Con le sue opere ha rivoluzionato l’idea di performance. Ha messo alla prova il proprio corpo, i suoi limiti e le sue potenzialità espressive. Dagli anni Sessanta ad oggi, Marina Abramović ha stupito il mondo dell’arte e non solo.
Con The Cleaner, la prima mostra a Palazzo Strozzi in cui una donna è protagonista assoluta – l’artista che ha esordito giovanissima a Belgrado – ha fatto pulizia del passato, della memoria, del destino. Come una in una casa ha tenuto solo quello che serve ed è essenziale.
Oltre cento opere per ripercorrere le principali tappe della sua carriera: dalle pitture figurative e astratte degli inizi, alle performance attraverso l’utilizzo diretto del proprio corpo, dagli anni Settanta in poi.
La serie Rhythm (1973-74) e Thomas Lips (1975), poi Art Must Be Beautiful/Artist Must Be Beautiful (1975), dove, nuda, pettina i propri capelli fino a far sanguinare la cute. Fino a The Freeing Series (Memory, Voice, Body 1975) in cui mette alla prova la capacità di resistenza individuale attraverso estenuanti azioni ripetitive di parole, suoni e gesti.
Poi le opere nate dal rapporto sentimentale e professionale con l’artista tedesco Ulay, culminato, nel 1988, con la performance The Lovers (1988) dove i due artisti si incontrano al centro della Grande Muraglia cinese dopo aver percorso a piedi 2500 chilometri ciascuno.
Attraverso gli anni Novanta e la tragedia della guerra in Bosnia che ispira Balkan Baroque (1997) con cui Abramović vince il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia pulendo, una ad una, mille ossa di bovino mentre intona canzoni popolari serbe. Ancora opere legate alla sua terra di origine come The Hero (2001) dedicata al padre eroe della Resistenza.
The Artist is Present (2010) è una delle performance degli ultimi anni in cui l’artista per più di settecento ore ha fissato milleseicentosettantacinque persone seduta, muta e immobile, al MoMa di New York.
“E’ meraviglioso essere in Italia, è un Paese estremamente importante per me sin da piccola quando prendevo il treno per arrivare a trieste e comprare i jeans.” – racconta Marina Abramovich – “Poi crescendo ho iniziato ad apprezzare la cultura Italiana ed è proprio qui che ho fatto le mie prime istallazioni. Questa è una mostra che copre 50 anni del mio lavoro, sono onorata di essere la prima donna dopo secoli ad avere una retrospettiva qui a Palazzo Strozzi, spero che ce ne siano tante altre dopo di me.”
“Palazzo Strozzi, ha detto Arturo Galansino – direttore generale e curatore della mostra a Palazzo Strozzi – conferma la sua vocazione per il contemporaneo con la prima grande retrospettiva italiana dedicata a Marina Abramović, una delle più iconiche figure artistiche del nostro tempo che con la sua ricerca artistica ha attraversato mezzo secolo sfidando i nostri limiti, reinventando il rapporto con il pubblico, riconfigurando il concetto stesso di performance e entrando indelebilmente nell’immaginario collettivo”.
La prossima performance, ha anticipato l’artista, senza, per scaramanzia, fornire ulteriori dettagli, sarà nel 2020. “Spero – ha detto – che tante altre mostre in cui sarà protagonista una donna possano seguire dopo la mia”.
La mostra è organizzata da Fondazione Palazzo Strozzi, prodotta da Moderna Museet, Stoccolma in collaborazione con Louisiana Museum of Modern Art, Humlebæk e Bundeskunsthalle, Bonn. A cura di Arturo Galansino, Fondazione Palazzo Strozzi, Lena Essling, Moderna Museet, con Tine Colstrup, Louisiana Museum of Modern Art, e Susanne Kleine, Bundeskunsthalle Bonn.
La mostra è aperta tutti i giorni dalle 10.00 alle 20.00, giovedì 10.00 – 23.00. Dalle 9.00 solo su prenotazione. Informazioni: +39 055 26 45155 www.palazzostrozzi.org